martedì 8 settembre 2009

Le cronache del Corriere Apuano: 2007

Uno spettacolo incredibile per un pubblico eccezionale
Il falò di San Geminiano esalta tutti i sensi della tradizione


Le brume di una stupenda serata invernale si stendevano pigre sul pianoro antistante il greto del Verde, animate dalla pallida luce dell’illuminazione pubblica che smussava i contorni, e mentre le vie circostanti andavano animandosi all’inverosimile, l’occhio si fissava ammirato sulla enorme pira allestita con sapienza inusitata a dichiarare il livello di una perizia ormai prossima alla perfezione. Dagli anfratti impenetrabili, indotti dalle arcate del ponte, un’improvvisa animazione che si accendeva di fiaccole che via via si moltiplicavano per formare un cordone di fuoco, pilotato d’istinto a circondare la catasta. Inavvertito il segnale, ma il gesto era perentorio e, di colpo, una luce violenta investiva le ombre più diverse fino ad annichilirle.
Questa la cronaca stringata dell’antefatto di una pagina di storia, tradottasi poi, nel consumarsi dell’evento, in un peana esaltante che parole correnti faticano a declinare.
La fiamma compatta che avvolge la catasta in un abbraccio voluttuoso, facendosi strada senza il minimo ostacolo verso il cielo; le volute rossastre via via più corpose ed imperiose che cercano spazio nel vuoto per esaurirsi in un coro di faluggini che tingono la notte, costruendo disegni fantasmagorici; un riverbero violento e seducente che schiude a panorami onirici, fatti di immagini ricche di metafore represse.
Inavvertitamente la mente si smarrisce, compresa solo nello spettacolo incredibile che si consuma in un lungo, inesauribile frangente, capace solo di somatizzare grondanti sensazioni di godimento, per assorbirle attimo dopo attimo, come una panacea inattesa donata senza limite.
Il ritorno alla realtà affastella il ripetersi dei cori di parte, l’agitarsi incontrollato degli attori primi consapevoli di quanto offerto, il brusio di consenso della folla incapace di staccarsi prima che il rito sia consumato. Tutto concorre a costruire la certezza che non servono i paragoni, non contano i confronti esasperati, le analisi critiche dettate dai più diversi risentimenti. Non occorre neppure tentare una classifica. Quanto dato ha parlato e detto il possibile; inutile dilungarsi.
Il confronto, imposto e cercato nel ritorno, si condisce di affermazioni altisonanti, fino a tradursi in un dialogo impossibile, perché dialogo non può esserci quando alla base di tutto insista una logica di parte che, nel desiderio dell’affermazione ad ogni costo, si abbranca a perifrasi incontrollabili.
Ma è proprio il gioco delle parti, quello che concede a Pontremoli di godere, grazie all’impegno di due bande di quasi anonimi stacanovisti, di un’occasione incredibile per restare abbarbicata alla proprie tradizioni. Certi di ripeterci, non possiamo esimerci dal dire che anche quest’anno si è fatto, da una parte e dall’altra, ancora qualcosa di più per rendere sempre più concreto l’evento. Difficile intuire, se non si entri nel sistema completamente, cosa significhi davvero dare corpo ai due appuntamenti, consapevoli che non debba o possa bastare il necessario, quanto piuttosto ogni volta inventare qualcosa di diverso che faccia la differenza, al di là delle possibili variabili indotte da una stagione imprevedibile. Il piacere che si regala non dice certo i lunghi frangenti alla ricerca dei giusti materiali, le snervanti battute tra i boschi foriere di sudate inenarrabili, l’impegno corrosivo del trasporto, la realizzazione infine di un progetto studiato e preteso che soddisfi i palati più fini.
E non sono altro che uomini come noi, che decidono di dedicare molta parte del loro tempo per continuare una tradizione che nessuno impone, ma solo un grande senso di appartenenza destinato a tradursi in una sensazione comune che diventa obbligo coltivare, anche con il solo consenso, per continuare ad essere parte consapevolmente di un’unica realtà.

Luciano Bertocchi

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